di Marina Agostinacchio
Davvero ricca di ricerca stilistica tra passato e presente, la poesia in versi liberi de La resa dei giorni di Eleonora Rimolo. La ricca silloge, uscita a novembre del 2015, (Edizione Alter Ego – collana La tela), testimonia e conferma l’ intenso percorso di scrittura della giovane poetessa di cui questa è la terza pubblicazione.
Il testo è un procedere per periodi spesso in assenza di punteggiatura, lasciando che una cometa amica guidi il lettore nel cammino insieme a lei, attraverso impulsi neuronici della mente, sinapsi emotive, diacronici sentimenti.
Si avverte nella scrittura della giovane poetessa la frequentazione della poesia classica greca e latina, (del resto a Lidia la dedica della silloge non è un caso), come le immaginifiche visioni dei surrealisti francesi, e le suggestioni della grande poesia greca del XX secolo, per giungere ai nostri, D’Annunzio, Montale, i post ermetici, coloro che hanno corroborato in pensiero e tendenza formale la poesia italiana fino ai giorni nostri.
Nutrita di non ricordo, in affannata ricerca di sé, la parola diviene stele, impegno morale di lettura, ma anche invito sognante a dire che le stelle cantano passaggi d’anima, in sofferenza e tensione verso una felicità nuova e sconosciuta.
Legge dunque, la parola, che si leva alta tra esposizioni, intermittenze di una carne contratta, delirante, decodificata in anatomie (carne, costole, gambe, fragili animali di carne imperfetta, putrescenti, cuore, aromi di carne, narici, sterno, i resti esangui/ degli organi ingeriti/ e in questa volgare mescolanza/ di carne..) Ma anche ricorso frequente ad ossimori a cui l’universo intero partecipa per nulla indifferente (Il sole declina l’invito…)
quel pianto del manto
stellato
con cui coprivamo l’identità
dei nostri sogni in dormiveglia
Nei versi di Eleonora si stagliano persistenti richieste di risposta a domande laceranti sull’esistenza che pur prendendo avvio dal dato personale, si allargano ad un pensiero cosmico colto in quel ricorso al tu, non altro che noi. (Tu conservi ancora l’illusione)
Tu conservi ancora l’illusione
della gloria,
reduce dalle rinunce ostinate
e credi che un burattino governi
gli incresciosi egoismi del terrore:
invece è il pipistrello, e
il pesco in mezzo al terriccio
unto dei fondi del caffè e
del tocco,
altero s’increspa lo stelo
del debolissimo fiore qualunque:
è il sole patetico di un’altra
giornata intonsa,
i suoi petali raggi contrari alla luna
sorgente, il fiato dei cani isterici
prigionieri più di noi, noi loro
carcerieri
nella per noi definitiva
trasparenza delle cose.
Tema centrale dell’opera di Eleonora ne La Resa dei giorni è quello della ricerca, dell’abbandono, generatore di nostalgia, nell’accezione propria di dolore per qualcosa che non ritorna e che in lei diviene dolore per un non consapevolmente vissuto, vuoto che partorisce solitudine.
(Prima di abbandonare del tutto…)
… tornando sempre alla stessa
nascita in aborto
di madre
Però c’è la vita che continua e rimette in gioco:
m’attende un altro mese
di carta sacrificato
agli altari del disordine
Il compito è di affidare, quindi, l’acquietamento dello stato d’animo al caso:
forse bisogna lanciare
un dado ed ingoiarlo
stando attenti a non
barare.
Le azioni spesso si rincorrono attraverso i verbi in una frenesia concentrica dove la scelta consonantica e l’introduzione dell’ossimoro, sono l’imperativo categorico di un volere fare:
… mi
spengo e spente
le luci si accendono
a forare pupille
Come si faceva cenno poco fa, c’è in Eleonora la ricerca della propria identità. Ma dove, quale l’origine della sua identità, pare voglia chiedersi e chiedere ausilio a noi.
(Buca la neve l’asfalto…)
Buca la neve l’asfalto
buca, neve, dentro cui
precipito al risveglio,
bocche sporgenti e viali
stretti, stringo tra le gambe
e m’incammino, di freddo
guarita, armata
della grande gratitudine,
il vizio di domandare
ad una città muta
dov’è questa identità,
dov’è, forata da un colpo
solo di grandine
scagliata dal pugno
del cielo
e ritrovata, come neo
sulla cui schiena esplode
il piacere
di un amoroso contatto.
E ancora istanza ossessiva, impellente, la denuncia di un sé mancante:
Sopra quale inespresso albero…
Sopra quale inespresso albero
compiaciuto della sua nudità
ho lasciato, senza volerlo,
quel nido di rami o spine
che mi avrebbero trafitto
teneramente il minuscolo cuore
senza salvarlo a più crude torture?
Forse da lontano lo rivedo
ogni volta che sciatta la via
rincorre i miei doveri, impietosa:
il grande pozzo al centro del campo
come un tempio dedicato
alla Rovina:
muta e marmorea sta
la vecchina
tessendo piano l’inerzia
del vissuto, coperta solo
da un vetro sporco di passato.
Oppure in:
Questo nostro viaggio ultimo…
Questo nostro viaggio ultimo
risulta dalla striscia di condensa
umida condotta a due mani
trasversalmente al porticato
che ci restituì
alla preziosissima cella:
tutto era già sotto
il tetto ed il fiuto
non tradì il parto remoto:
se respiro ancora è
perché tu segui i miei
segreti messaggi lasciati
nei cassetti inanellati
a forma di domani
contrari
all’evidenza apocalittica
di una amputazione
criptica.
E oltre, in Asmatiche turbe e fogliame…
Asmatiche turbe e fogliame
scricchiolano sotto un peso
di nebbia perlacea:
(quella compulsione malata
di alzare il capo e non
inciampare nel riflesso:)
soffieranno astrali singhiozzi
e raggelatosi il corpo
si vestirà di smanie esiziali,
agili minatrici
di questa sottintesa realtà:
sfileranno in linea retta,
ad una ad una, tutte
le ore a perdifiato,
scivoleremo, testa contro testa,
nel gorgo imbrattato col sangue
della mia falange
sinistra: pudore dell’essere
umani,
fragili animali
di carne imperfetta,
putrescenti siamo meteoriti
nel cosmo, fastidi
che fanno ombra alle stelle,
tra i vizi insopportabili
Quasi assente la rima, nei versi di Eleonora si riscontrano figure retoriche come allitterazione, enjambement, climax come in: L’arteria del tempo si dilata…
L’arteria del tempo si dilata
mentre osservi le contrazioni del giorno:
brevi spasmi simulano la malattia
e nelle smorfie di un nuovo amplesso
solamente le fasi lunari
emergono tremando violente.
O come in Il filo era già dispiegato…
Il filo era già dispiegato
lungo i percorsi fondamentali
del prima e del poi:
restano prive di tracciato
solamente le vie secondarie
di questo cianotico presente,
i cortili in pietra che danno
accesso alle antiche case
che visiteremo in seguito…
Là dove il climax viene colto più che dalla parola scelta, che introduce accennando, dal procedere d’un fiato di immagini concentriche.
Di metafore poi il testo è percorso in forme serrate. Se dovessimo inoltre analizzare ogni singola poesia, scopriremmo altre figure retoriche di cui l’autrice ne è inconsapevole “scavatrice”. Se ci soffermiamo sull’uso dell’ossimoro, sembra quasi che il ricorso ad esso sia conferma di uno stare in bilico tra le cose, tra decisioni mai definitive, giudizi contrastanti.
Così in Il giorno è una piaga iridescente…
Il giorno è una piaga iridescente /che sotto la terra pulsa/tutti i nostri sogni inespressi./Al crepuscolo la ferita/languisce sulla sommità/sbiadita del monte/la consumano albe/mai sorte/ del profondo si posa/chiara la luna/e patisce un groviglio/di tenebre.
Alla radice delle “ambiguità”, tutta una materia lavica di non detto per non potere davvero dire; la parola non può davvero essere referente del dato certo, perché Eleonora sembra patire di una zoppia; ciò che negli esseri umani è la presenza della cosa delle cose: la propria identità è per lei rivelazione folgorante di un “essere fuori” . Vorrebbe Eleonora il Nome, colui che chiama e definisce l’esperienza, la cifra che identifica senza ombra di incertezza.
A sottolineare questo disturbo quasi ossessivo, ecco il tic espressivo per denunciare il male di vivere. (La tua stanza è luogo…)
La tua stanza è luogo
di gestazioni primordiali:
etere nero in scatola
che non aprirai
giaciglio dal quale
non ti alzerai col capo
per sfidare impavido il giorno….
o ancora:
Quel sibilo sensibile di serpe
senza sospiri sospeso
sotto un firmamento extraplanetario
è l’ossessivo tendere
a saperci senza limiti
di carne e di spirito
un bruto similare
A definire meglio la difficoltà di sintonia, non però di empatia, con sé ecco allora il ricorso anche alla personificazione
(Non sono più…)
la luna è priva di dubbi. pugno piumato di pece deride la penombra scuote un ramo
le stelle scattano…
corrono e irridono questi miei incurabili difetti
e la strada si apre,
dischiusa e affamata
Questa scelta di figura di significato, la personificazione appunto, lascerebbe intravvedere il continuo ricorso a parallelismi con sé, la delega, la rinuncia a volere dire in primissima persona esponendosi….
È un divagare, satellite vagante da pianeta a pianeta. Un rimando a centrare il nucleo delle cose.
Tale ricorso distrae il lettore, sposta continuamente l’accento dal focus del discorso poetico e dice, con ricchezza immaginativa, il magma inesplorato che nella scrittrice è fuoco per i suoi ragionamenti, la “fame di racconto”, la volontà di conoscenza del cosmo in cui l’autrice è inserita. Ricchezza, magma, fame di raccontare e raccontarsi sono i felici approdi di Eleonora che, generosa, non si risparmia negandosi o attraverso simulazioni; tutt’altro.
Fa dono di sé al lettore, vagando di stella in terra, in cerca di risposta.